domenica 17 maggio 2015

Basilica di Sant'Antonio Abate e Santa Francesca Cabrini a Sant'Angelo Lodigiano e museo



Indirizzo: Via Umberto I, nel centro abitato, in posizione dominante -Sant'Angelo Lodigiano (LO)
Tipologia generale: architettura religiosa e rituale
Tipologia specifica: chiesa
Configurazione strutturale: Edificio in muratura continua, a croce latina con presbiterio a trifoglio deformato; pianta a tre navate; la navata centrale si allarga in corrispondenza dei bracci di croce trasversali ed assume la forma di un ottagono con absidi laterali a tutto sesto, mentre le navate laterali girano attorno alle absidi stesse; matronei corrono sopra la parte centrale delle navate laterali.

Epoca di costruzione: 1928 - 1938

Autore: Amati Carlo, completamento campanile; Chiappetta Spirito Maria, rifacimento (campanile escluso); Calori, progetto chiesa attuale; Conti Felice, costruzione chiesa attuale; Taragni, decorazione; Arzuffi Pasquale, decorazione, affreschi

Dati della Basilica:
Lunghezza complessiva: metri 61
Larghezza navate: metri 18,50
Larghezza transetto: metri 33,60
Altezza al punto chiave della cupola: metri 30
Altezza cupola centrale: metri 9,80
Diametro della cupola: metri 9,80




Cenni storici:

Dall’Archivio vescovile della Diocesi di Lodi si rileva che la “Ecclesia plebana (parrocchiale) di S. Angelo” ha origini che risalgono al 1210, che era situata nel centro dell’abitato, press’a poco dove attualmente sorge la Basilica, e che era arciprete un certo Gerardo.
Questa vecchia chiesa esistente nel 1210 durò fino al 1400, quando si edificò, col campanile, una nuova chiesa. Essa subì parecchie trasformazioni, e in una di queste, come risulta dalla relazione della Visita Pastorale del 1535, fu assegnato un nuovo patrono alla chiesa: S. Antonio Abate.


Verso il 1660, i fedeli santangiolini, ritenendo la chiesa parrocchiale poco decorosa, invitarono il parroco di allora, don Domenico Longo, affinché si impegnasse per costruire una nuova chiesa. La costruzione iniziò il 12 giugno 1662 e terminò il 4 agosto 1673, una chiesa però povera di linee e forme architettoniche.


Nel 1767 venne costruito l’artistico e prezioso altare maggiore, che fu poi collocato nella nuova basilica. In seguito alla ristrutturazione del presbiterio avvenuta in basilica nel 1968 fu purtroppo trasferito nella chiesa rionale di Santa Maria regina.


Per tutto l’ottocento e i primi anni del novecento si pensò alla costruzione di una nuova e degna chiesa parrocchiale, ma le situazioni storico - sociali non permisero di realizzare nessun progetto.


Nel 1921 venne nominato parroco di S. Angelo Mons. Enrico Rizzi, succeduto a Mons. Domenico Mezzadri eletto Vescovo di Chioggia, e si ripropose il problema della nuova chiesa parrocchiale. Egli intraprese l’opera con coraggio e determinazione: appena l’area necessaria fu pronta venne affidato all’ingegnere Spirito Maria Chiappetta di Milano l’incarico di preparare un nuovo progetto; e così il 7 luglio 1928 venne posta la prima pietra ed iniziarono i lavori.


Il 28 ottobre 1938 il nuovo tempio era pronto e venne consacrato da Mons. Pietro Calchi Novati, vescovo di Lodi. Il 13 Novembre di quello stesso anno veniva beatificata la concittadina Francesca Cabrini.
Negli anni successivi la Basilica venne decorata e adornata anche in seguito alla canonizzazione di Francesca Cabrini avvenuta in S. Pietro a Roma il 7 luglio 1946.



L’ORGANO della Basilica:


La prima notizia scritta esistente nell'Archivio parrocchiale, riguardante l'esistenza di un organo nella chiesa prepositurale della nostra borgata, risale al 1° febbraio dell'anno 1797. Nel documento viene incaricato il "fabbricante d'organi Andrea Buzzoni di Pavia" a "incordare" l'organo con l'impegno che il lavoro fosse concluso per la festa del Santo titolare.
 
Il 31 maggio 1807, la Fabbriceria della chiesa incaricava Giuseppe Serassi di Begamo alla costruzione di un nuovo organo che veniva ultimato per la Pasqua dell'anno 1808. Le cronache raccontano di uno strumento eccellente e di valore che però nel 1856 non suonava più.

Il 30 agosto 1856, fu chiamato da Bergamo Adeodato Dossi-Urbani che propose di fabbricarne uno nuovo di zecca di 70 registri. Anche il fabbricante Lingiardi di Pavia fu investito del problema, il quale suggerì invece di utilizzare l'impianto dell'organo esistente completandolo in maniera di realizzarne uno più moderno. Nel 1858 l'organo di Luigi Lingiardi venne inaugurato dal maestro Felce Frasi alla presenza di mons. Benaglio, vescovo di Lodi.


L'organo tra i suoi registri aveva anche strumenti che in chiesa non erano più tollerati, allora nel 1896 il figlio di Lingiardi li tolse, ne trasformò altri e lo ripulì.

Nel 1920 l'organo fu portato in fondo alla chiesa e lì rimase fino a quando fu levato per la costruzione della nuova parrocchiale ultimata nel 1938.

Per la nuova grandiosa costruzione mons. Enrico Rizzi propose alla Commissione diocesana di musica sacra tre progetti.
Quello del costruttore Mascioni di Cuvio consisteva in un organo nuovo a trasmissione elettrica a 2 tastiere di 39 registri e 1661 canne per una spesa di L. 64.500. Gandini di Varese progettò un organo a sistema pneumatico tubolare di 25 registri e 1900 canne che sarebbe venuto a costare L. 25.000. Ambedue i progetti prevedevano l'utilizzo di tutto il materiale dell'organo vecchio.
Il terzo progetto fu quello di Nicolini di Crema che si basava sulla ricollocazione dell'organo esistente di 2626 canne, completandolo con tutti i registri che erano stati tolti nel 1920.
La Commissione scelse la proposta di quest'ultimo che dava maggior affidamento di riuscita. Il prezzo fu contenuto a L. 25.000.
Quando l'organo fu completato nella fabbrica di Crema, i maestri Paratico, Foppo di Crema e Mola di Lodi, i sacerdoti don Giuseppe e don Sandro Beccaria, fecero un primo collaudo che diede ottimi risultati per la sua sonorità.
Riassumendo, l'organo possedeva il fondo della ditta Serassi, i perfezionamenti del Lingiardi e alcuni registri e la tecnica, allora moderna, della ditta Nicolini di Crema.
L'organo fu collocato sulla parte destra dei matronei, e in questa sistemazione rimarrà fino agli anni '60 del 1900, quando il parroco mons. Giuseppe Molti decise l'installazione di un nuovo e grandioso organo, opera della Casa F.lli Costamagna di Milano.
L'organo esistente venne restaurato ed elettrificato con l'aggiunta di un organo corale ed uno ad eco, diviso in due corpi simmetrici montati rispettivamente sui matronei ai lati dell'altare maggiore. L'organo fu dotato di 40 registri sonori, suddivisi sui manuali e la pedaliera, con un complesso fonico di circa 3.000 canne, fusi in una gamma di timbri classici e liturgici oltre ad alcuni registri solisti originali e caratteristici.
La consolle fu situata nel coro, composta di tre tastiere a 61 note, da una pedaliera a 32 note, 5 combinazioni fisse, 60 placchette di comando a bilico, 15 accoppianti, 23 pistoncini, 14 pistoni pedaletti reversibili, 3 staffe e 26 segnalazioni luminose.
La Commissione collaudatrice era composta dai santangiolini prof. Don Giuseppe Beccaria, prof. Giovanni Bracchi, prof. Alessandro Esposito titolare della cattedra di organo al Conservatorio "Cherubini" di Firenze, lo stesso che il 27 marzo 1960, eseguì il concerto di inaugurazione.

IL MUSEO: della Basilica:





















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Fonte:
http://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/LO620-00079
http://www.coromadrecabrini.it/basilica.htm

sabato 16 maggio 2015

Il mulino di San Rocco di Dovera



Il mulino ancora osservabile nella località di San Rocco di Dovera fu verosimilmente costruito, stando alla tradizione, nel XV secolo.
Di proprietà dei fratelli Granata dal 1850, esso venne affittato alla famiglia Codazzi fino al 1950, anno in cui subentrò come affittuaria la famiglia Sari. Quest’ultima ne divenne proprietaria nel 1956.
Una recente ristrutturazione ad opera dell'ingegner Giovanni Pedrazzini, ha consentito la possibilità di rivedere ai giorni nostri un'opera della tecnica lombarda.


L’acqua che muove la ruota del mulino proviene da due diverse rogge che incrociano le loro acque in prossimità dell’impianto: da sinistra giunge la roggia Chignola vecchia, che ripete il nome di una cascina poco lontana; da destra la roggia Dovarola, proveniente da Dovera.


 La manutenzione delle due rogge viene eseguita a mano periodicamente dagli agricoltori che ne hanno acquisito il diritto d’uso. Dopo il passaggio nella ruota, che avviene senza salto d’acqua e secondo il sistema detto “per di sotto”, l’acqua confluisce, attraverso una paratoia, nel fiume Tormo.

La ruota, di circa 7 metri di diametro e 80 centimetri di larghezza, ha una potenza di 14 cavalli.

Oggi il mulino lavora, sotto la direzione del mugnaio nonché proprietario Antonio Sari, per circa due ore al giorno, ossia quanto basta per produrre i quantitativi di farina integrale di granoturco occorrente all’alimentazione giornaliera dei suini allevati all’interno del complesso rurale. Fino al 1956 il mulino era adibito anche alla pilatura del riso, ma l’attività è stata interrotta per motivi di concorrenza economica.


La pila ora non esiste più, ma sono rimasti nel cortile della cascina alcuni blocchi di pietra traforati dai tipici vani a olla, a testimonianza dei pestini da riso utilizzati in passato.


Fino agli anni Settanta del secolo scorso il mulino produceva anche farina di frumento, proveniente da campi di proprietà dell’azienda stessa. Il mulino di San Rocco è un fabbricato di due piani che si sviluppano lungo il corso della roggia. La costruzione continua ad est con la cascina annessa che chiude un ampio cortile.


 Di pertinenza del vecchio mulino è il porticato per il riparo dei carri. Esternamente è rimasta una sola delle tre ruote di ferro che un tempo formavano l’impianto.


La ruota, di circa 7 metri di diametro e 80 centimetri di larghezza, ha una potenza di 14 cavalli. L’interno dell’impianto presenta una macina (due palmenti) per mais tuttora funzionante, mentre nel locale attiguo si trova, inutilizzata, una grande molazza, forse adibita in passato alla produzione di olio.



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L’eccezionale recupero è stato realizzato per la società Energyca di Codogno dall’ingegner Giovanni Pedrazzini.
Il mulino Sari a San Rocco rinasce come centrale idroelettrica.

E’ tornata a girare la vecchia ruota del mulino Sari di San Rocco di Dovera. Merito del committente, la Società Energyca di Codogno, e dei suoi proprietari, che hanno creduto nel progetto di recupero. Merito soprattutto dell’ingegner Giovanni Pedrazzini, il padre dei nuovi mulini che, pur mantenendo le sembianze originarie di due secoli fa, oggi funzionano producendo energia pulita. Il risultato della comunione d’intenti fra Energyca, i Sari e l’ingegner Pedrazzini è sotto gli occhi di tutti, nella piccola frazione a due passi da Dovera. E rappresenta un esempio di perfetto recupero di uno dei tesori dell’economia lombarda: in tempi di crisi e di globalizzazione sfrenata, ridare vita a queste vecchie ruote, i cui ingranaggi sono levigati dal tempo e dalla laboriosità dell’uomo, rappresenta un investimento eccezionale. Un pezzo dell’economia e della tecnologia lombarda è dunque tornato a funzionare e questa è una vittoria per il territorio e per le nuove generazioni, che avranno modo di vedere da vicino, in tutto il suo splendore, il rinato mulino Sali. n un borgo preziosoIl suo “restauratore”, l’ingegner Pedrazzini della Ser.Ge.M.A. di Guardamiglio, è entusiasta. E propone di accompagnarci al vecchio mulino. L’appuntamento è davanti alla chiesa di San Rocco. Percorriamo la vecchia statale 235 fino a Fontana, poi giriamo a sinistra in una stradina asfaltata che si intrufola nei campi. I fossi ai lati della strada, la carreggiata strettissima, l’assenza di cartelli e indicazioni: forse è anche per questo che San Rocco di Dovera ha mantenuto tutto il suo fascino rurale. Arriviamo alla chiesetta, una pieve di campagna che custodisce tesori pregiati (vedi i lavori del Piazza) e troviamo l’ingegner Pedrazzini. Il restauratore dei mulini è pieno di entusiasmo, è un fiume in piena. Ci mostra da fuori il mulino della famiglia Sari e indica la roggia Dovarola che mette in movimento la grande ruota rimessa a nuovo. «È acqua purissima - avverte l’ingegner Pedrazzini -, arriva da una risorgiva. Proprio per questo la sua temperatura non scende mai sotto i dodici gradi centigradi e quest’inverno, quando la campagna era gelata, ci ha regalato uno spettacolo davvero impagabile: da un lato le temperature esterne sotto lo zero, dall’altro la grande ruota che pescava l’acqua della roggia, sopra lo zero, e che per questo sprigionava una grande nuvola di vapore che investiva l’esterno del mulino». n un simbolo di famiglia. La ruota è il simbolo della famiglia Sari. Ha funzionato fino all’inizio degli anni Ottanta, poi il progresso l’ha messa da parte ed è arrivata fino al nuovo millennio con più di un acciacco. «L’ho studiata a lungo - dice l’ingegner Pedrazzini - e mi sono reso conto che siamo di fronte a una ruota di Victor Poncelet, celebre professore francese di meccanica applicata presso l’arsenale di Metz e ufficiale dell’esercito napoleonico». Una storia affascinante, senza dubbio. Cosa ci faceva Poncelet in mezzo alla pianura Padana, in un posto che anche oggi è costituito da qualche cascinale, una piccola pieve e quattro case? «Poncelet era ufficiale dell’esercito - ribadisce Pedrazzini - e nel 1796, durante la campagna d’Italia, una colonna di francesi ha rincorso gli austriaci in ritirata. Probabilmente la ritirata austriaca passò da queste parti. È inoltre probabile che i francesi si fermarono proprio a San Rocco di Dovera ed è testimoniato dagli ex voto nella chiesetta. Fatta questa premessa - aggiunge Pedrazzini - passiamo alla ruota del mulino, che ha una paratoia identica a quella progettata da Poncelet. Sono convinto che la ruota di Poncelet, distinguibile dalle altre proprio per il particolare della paratoia, sia stata applicata a San Rocco. E infatti accanto alla ruota, su una pietra, è incisa una data: 1802, esattamente sei anni dopo il passaggio dell’esercito francese». n un recupero prodigiosoOggi, visto dall’esterno, il mulino mostra tutto il suo fascino. La ruota è stata recuperata alla perfezione, rispettando le tecnologie di due secoli fa e arricchendola con delle chicche della tecnica moderna che sono comunque quasi invisibili, o perché piccolissime, o perché integrate all’interno di una struttura antica. Il risultato, come detto, è a prima vista eccellente. È un libro aperto sulla vita nei campi, potrebbe essere considerato un vero museo, sebbene il recupero del mulino non sia stato realizzato per questo scopo preciso. n una tecnologia anticaAlla base del restauro e della conversione in centrale idroelettrica c’è uno studio approfondito, che ha portato l’ingegner Pedrazzini a sfogliare testi tecnici ormai quasi introvabili. Per capire come funzionava la ruota di Poncelet è stato alla Biblioteca dell’università di Pavia e ha allargato i suoi orizzonti alla Spagna. «Ho ricevuto una lettera da una libreria di libri antichi di Comellas, a Barcellona, l’unica che aveva ancora qualche copia del libro di Poncelet - rivela Pedrazzini -, così me lo sono fatto immediatamente inviare e ho passato un’estate, sulle montagne di Cortina, nel Cadore, a studiare quel testo, scritto in un francese meraviglioso». Dopo lo studio, la ruota ammalorata è stata smontata e portata in officina. Era il luglio 2007. «A settembre erano pronti i disegni delle nuove palette - spiega Pedrazzini - poi abbiamo rifatto l’albero, i cuscinetti. Una volta ultimata, la ruota è stata rimontata sul vecchio mulino. Ricordo ancora quella giornata, con un tempo da lupi. Facciamo però un passo indietro - aggiunge - il lavoro mi è stato commissionato nel 2007 dalla ditta Energyca di Codogno, da un giovane ingegnere, Bruno Biffi. Inizialmente si pensava a rimettere in vita il mulino dotandolo di una turbina per la produzione di energia elettrica da vendere all’Enel. Poi, con un coraggio da leoni, abbiamo deciso invece di riportare il mulino alle sue origini, di sistemare la ruota di Poncelet del 1802 e di produrre energia sfruttando un salto d’acqua quello della roggia Dovarola, di 2 metri e settanta centimetri, con una portata variabile fra gli 80 e i 650 litri». Oggi quell’idea ambiziosa è una splendida realtà. «L’impianto elettrico è come quello di una centrale idroelettrica, è identico - afferma soddisfatto l’ingegner Pedrazzini - la ruota del mulino usa la trasmissione originale e mette in azione una generatrice asincrona che è collegata alla rete elettrica. La potenza massima è di undici kilowatt. Possiamo produrre circa 50mila chilowattora all’anno». Dal mulino che un tempo produceva farina, oggi si genera corrente, che viene venduta all’Enel. Il tutto nel rispetto della struttura originaria. Ma c’è di più, perché se la famiglia Sari lo volesse, anche oggi potrebbe rimettersi a macinare il grano come faceva due secoli fa. n un meccanismo perfetto. L’interno del mulino, con tutti i macchinari collegati alla ruota, è infatti rimasto intatto e funzionante. Vedere girare gli ingranaggi silenziosissimi, mossi dalla Dovarola, è qualcosa di unico. Superato il grande portone del mulino si accede a un mondo magico, che la famiglia Sari sta in parte ristrutturando per adibirlo a agriturismo. Il restauro, però è rispettoso dell’assetto originario della corte e gli ambienti profumano di antico. In un futuro non troppo lontano sarà possibile pranzare accanto al mulino, vedere gli ingranaggi che silenziosi girano, producendo energia pulita. A regolare l’acqua che alimenta la ruota del 1802 è stato installato un sofisticato sistema computerizzato, che muove la paratoie: un sistema che però è integrato nel mulino e quasi non si nota. E forse, anche quest’ultimo accorgimento, la dice lunga sulla bontà del restauro, che ha regalato a Dovera, ma in generale a tutto il territorio, un vero gioiello della tecnica lombarda.
Fonte: Il Cittadino
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Fonte:
- http://ecomuseo.provincia.cremona.it/resource/documents/quaderno3.pdf;
- Il Cittadino.